Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia dei Monti del Matese

311 a.C.

Il console

Gaio Giunio Bubulco Bruto

Fu eletto console nel 317 a.C., con il collega Quinto Emilio Barbula. Durante il consolato Teano in Apulia ottenne un trattato di alleanza con Roma. Fu eletto di nuovo console, per la seconda volta, nel 313 a.C. insieme al collega Lucio Papirio Cursore. I due consoli elessero Gaio Petelio Libone Visolo dittatore per la conduzuione della campagna contro i Sanniti. Livio riporta che in alcuni annali da lui consultati, la presa di Nola sia da attribuire a Gaio Giunio e non al dittatore Petelio. Fu eletto magister equitum nel 312 a.C., dal dittatore Gaio Sulpicio Longo, per quella che pareva una immenente campagna militare contro gli Etruschi. Fu eletto di nuovo console, per la terza volta, nel 311 a.C., insieme al collega Quinto Emilio Barbula. Roma si trovava attaccata su due fronti, così mentre a Giunio toccò in sorte la spedizione contro i Sanniti, ad Emilio toccava quella contro gli Etruschi. I romani, guidati da Giunio nel Sannio, dopo aver ripreso Cluvie, dove in precedenza era stata massacrata la guarnigione romana, riuscirono a sopraffare i Sanniti in uno scontro campale, dove erano stati attratti con l'inganno dai Sanniti. Nel 302 a.C., durante il consolato di Marco Livio Denter e Marco Emilio Paolo, fu nominato dittatore, per far fronte agli Equi, che erano insorti per la costituzione di una colonia romana ad Alba, nel loro territorio. I romani ebbero facilmente ragione degli Equi, ed il dittatore ottenne il trionfo a Roma.

La genesi

Mentre la guerra con i Sanniti era ormai avviata alla conclusione, prima ancora che il senato si fosse liberato di quel pensiero, cominciò a circolare la voce di una guerra scatenata dagli Etruschi. Galli a parte, in quel tempo non c'era nessun popolo le cui armi facessero più paura, sia per la prossimità sia per il numero. E così, mentre l'altro console portava a termine le ultime operazioni belliche nel Sannio, Publio Decio, rimasto a Roma perché seriamente ammalato, su proposta del senato nominò dittatore Gaio Giunio Bubulco. Quest'ultimo, poiché la situazione era così critica da renderlo necessario, bandì una leva militare di tutti i giovani, e provvide con estrema cura alle armi e alle altre necessità del momento. Pur confortato da questa grande disponibilità di mezzi, il dittatore non aveva l'intenzione di muovere guerra per primo, ma, senza dubbio, di attendere che gli Etruschi prendessero l'iniziativa. Senonché anche gli Etruschi si comportarono nella stessa maniera, facendo grossi preparativi bellici ma rinunciando a scatenarla. Di conseguenza nessuna delle due parti in causa uscì dal proprio territorio. In quell'anno fu memorabile la censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio, anche se dei due il nome che rimase più a lungo presso i posteri fu quello di Appio, in quanto fece costruire una strada e l'acquedotto che porta l'acqua a Roma; queste opere le portò a termine da solo, perché il collega, per colpa di una revisione della lista dei senatori che aveva attirato dure critiche e risentimento contro i censori, aveva ceduto alla vergogna rinunciando alla carica. Appio allora, che dagli antenati aveva ereditato l'ostinazione tipica della famiglia, esercitò la censura da solo. Per iniziativa dello stesso Appio, la gens Potizia - cui in passato era riservato il culto dell'ara massima di Ercole - aveva istituito servi pubblici per affidare loro l'incombenza dei riti di quel culto. Stando a quanto si racconta, a seguito di questa decisione si verificò un fatto prodigioso che arrivò a creare scrupoli religiosi in quanti avessero voluto inserire delle innovazioni nei riti sacri: mentre in quel periodo le famiglie facenti capo alla gens Potizia erano dodici e comprendevano circa trenta uomini in età adulta, prima della fine dell'anno tutti i suoi membri con la relativa discendenza morirono. E non solo sparì il nome dei Potizi, ma alcuni anni dopo anche il censore Appio venne privato della vista dagli dei, memori di quel fatto.

E così i consoli dell'anno successivo, Gaio Giunio Bubulco per la terza volta e Quinto Emilio Barbula per la seconda, appena entrati in carica si lamentarono di fronte al popolo del fatto che il corpo dei senatori fosse stato deformato dalla pessima scelta operata, in virtù della quale erano stati esclusi parecchi individui migliori di quelli eletti, e si rifiutarono di garantire validità alla lista dei nuovi membri del senato, dicendo che era stata stilata in base al capriccio e alle amicizie personali, senza distinzione tra buoni e cattivi; così convocarono immediatamente il senato attenendosi all'elenco in vigore prima della censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio. Quell'anno vennero attribuite in base al voto del popolo due cariche di natura militare: il primo provvedimento stabiliva l'elezione da parte del popolo di sedici tribuni militari per quattro legioni, mentre in precedenza i posti riservati ai candidati di nomina popolare erano pochi, e l'assegnazione della carica era appannaggio quasi esclusivo di dittatori e consoli. La proposta venne presentata dai tribuni della plebe Lucio Atilio e Gaio Marcio. Il secondo provvedimento stabiliva invece che spettasse al popolo nominare anche i duumviri navali, il cui compito era quello di allestire la flotta e di organizzarne la manutenzione. L'iniziativa di questo plebiscito fu del tribuno della plebe Marco Decio. I consoli si divisero gli incarichi: a Giunio toccò in sorte la spedizione contro i Sanniti, mentre a Emilio la nuova guerra contro gli Etruschi. Nel Sannio la guarnigione romana di Cluvie, dopo aver respinto un attacco nemico, poiché non era stato possibile prenderla con la forza, una volta sottoposta ad assedio aveva dovuto arrendersi per fame ai Sanniti; questi massacrarono a bastonate e trucidarono i soldati già arresisi. Indignato per questa crudeltà, e ormai convinto che l'attacco contro Cluvie fosse la più urgente delle cose da farsi, quello stesso giorno Giunio assalì le mura della città e la catturò uccidendo tutti gli adulti. Di lì l'esercito vittorioso venne trasferito a Boviano, capitale dei Sanniti Pentri e città ricchissima, anche di armi e di uomini. Non essendoci motivo di particolare risentimento, i soldati si impossessarono della città per la speranza di razziare del bottino. Fu per questo che infierirono meno sui nemici, portando via però un bottino quasi più cospicuo di quanto non ne avessero rastrellato in tutto il Sannio; il console generosamente lo concesse tutto agli uomini.

La battaglia

Poiché allo strapotere militare dei Romani non riuscivano a resistere né gli eserciti, né gli accampamenti fortificati, né le città, i pensieri di tutti i comandanti sanniti si concentrarono a individuare un punto propizio per un agguato, se per caso fossero riusciti a sorprendere l'esercito romano intento alle sue razzie. Alcuni contadini che avevano disertato o erano stati fatti prigionieri, giunti tra i Romani in parte per puro caso e in parte per una precisa scelta, si trovarono d'accordo nel riferire al console (e per altro la cosa corrispondeva a verità) che una grande quantità di bestiame era stata concentrata in un impervio passo sulle montagne, e così convinsero il console a portate in quel punto le legioni armate alla leggera, nell'intento di fare del bottino. Lì, in prossimità dei sentieri, si era andato a nascondere un forte contingente nemico che, sbucando fuori quando vide i Romani entrare nel passo, li assalì all'improvviso con urla e grande frastuono. Sulle prime la sorpresa seminò il panico fra i Romani, che afferravano le armi e accatastavano i bagagli nel mezzo della strada. Poi però, mano a mano che ciascun uomo si liberava del carico e si armava, da ogni parte i soldati accorrevano alle proprie insegne e l'esercito, senza bisogno di ordini, prese a schierarsi secondo l'ordine ben noto per la lunga esperienza di guerra. E il console, precipitatosi nel punto in cui la battaglia era più accesa, saltò giù da cavallo e chiamò Giove, Marte e gli altri dei a testimoni di essere venuto su quel passo non tanto per cercare gloria individuale, quanto bottino per gli uomini, e di non poter essere biasimato di nient'altro se non dell'eccessivo desiderio di fare arricchire i soldati romani ai danni del nemico. Ma in quel momento la sola cosa che lo potesse salvare dal disonore era il valore delle truppe. Che dunque si unissero tutti in uno sforzo comune per gettarsi su un nemico già superato sul campo di battaglia, già privato del suo accampamento, delle città, e che tentava il tutto per tutto con quell'indegno espediente, affidandosi al luogo e non certo alle armi. Ma quale luogo, ormai, era inespugnabile per il valore romano? Bastava ricordare le rocche di Fregelle e di Sora, e tutti i successi ottenuti in zone sfavorevoli. Esaltati da queste parole, gli uomini - dimentichi di tutte le difficoltà - si riversarono sulla schiera nemica che si trovava in posizione sopraelevata. Sulle prime dovettero faticare molto per risalire la china. Ma poi, non appena i primi manipoli ebbero raggiunto la sommità del crinale e l'esercito si sentì saldamente piazzato su un'area pianeggiante, la paura si rivolse subito contro i responsabili dell'agguato i quali, liberandosi delle armi e fuggendo in tutte le direzioni, cercarono scampo in quegli stessi anfratti che prima erano loro serviti da nascondigli. Ma la conformazione accidentata del terreno, scelta apposta per creare problemi al nemico, andava adesso a loro discapito, impedendone i movimenti.

Le conseguenze

Di conseguenza furono pochi quelli che riuscirono a salvarsi: vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i Romani reduci dal trionfo si sparsero nei dintorni a fare razzia del bestiame offerto loro dal nemico in persona.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX